mercoledì 24 dicembre 2008


Varese – In un futuro non troppo lontano, ci potrebbe capitare di incontrare persone che tra gli intricati meandri della loro materia grigia nascondono componenti artificiali perfettamente integrate, che le rendono capaci di azioni oggi impensabili, come diventare esperti di qualsiasi argomento in tempi brevissimi.

Sulla prestigiosa rivista Nature Nanotechnology è stato pubblicato un articolo nel quale si descrive un esperimento in cui ricercatori italiani e svizzeri, tra cui Michele Giugliano, prima al Laboratorio di Neural Microcircuitry dell'Ecole Polytechnique Federale di Losanna, Svizzera, oggi all'Università di Anversa, Laura Ballerini e Maurizio Prato, dell'Università di Trieste presso il centro BRAIN, hanno "collegato" ai neuroni nanotubi di carbonio e in questo modo hanno aumentato la capacità dei neuroni di reagire agli impulsi.

I nanotubi di carbonio hanno capacità di condurre elettricità e i neurologi hanno dimostrato che questi materiali possono formare giunzioni con le membrane dei neuroni, un po' come quelle naturali tra cellule; questo permette di creare collegamenti neurali artificiali e vere e proprie 'scorciatoie' per il passaggio del segnale nervoso, in grado di aumentare l'eccitabilità neurale, rendendolo possibili ponti neurali che bypassino traumi o lesioni e interfaccia cervello-computer per neuroprotesi.

La fitta foresta di neuroni che compone il nostro sistema nervoso è organizzata in modo tale che ciascun neurone prenda contatti con quelli limitrofi attraverso ramificazioni cellulari molto intricate; questo permette di instaurare una comunicazione tra neuroni e tra aree neurali anche distanti tra loro.
La comunicazione sfrutta i segnali elettrici: quando la membrana di un neurone si eccita in risposta a un messaggero chimico esterno – neurotrasmettitore - inviato da altri neuroni, il treno di impulsi elettrici si propaga come un'onda da un'estremità all'altra del corpo del neurone fino alla punta dell’assone, il braccio principale del neurone, e induce il rilascio di nuovi messaggeri chimici che vanno a eccitare la membrana di altri neuroni. In questo modo l'impulso elettrico viaggia nel cervello.

In caso di lesioni, tuttavia, per esempio a seguito di un ictus o di un trauma, il "viaggio" del messaggio neurale può trovare dei "binari morti" e fermarsi. I nanotubi di carbonio potrebbero essere usati per ripristinare la linea neurale e bypassare zone lesionate; potrebbero accorciare i collegamenti e quindi accelerare il viaggio dell'impulso elettrico, potenziandone l'effetto. Non solo, anche le interfaccia macchina-cervello, cui oggi sono rivolti gli occhi di tanti che, vittime di lesioni, non possono più comandare i propri muscoli, potrebbero essere costruite utilizzando i nanotubi sull'ultimo tratto di collegamento al cervello, piuttosto che i classici elettrodi in metallo usati oggi; infatti, il nanotubo in carbonio si adatterebbe molto meglio a questo compito, in quanto si dimostra più capace di connettersi e formare giunzioni più "naturali" con la membrana del neurone.

gli autori nell'articolo spiegano: "i risultati riportati nel nostro lavoro indicano che i nanotubi potrebbero influenzare l'elaborazione neurale dell'informazione". Chissà, magari in futuro saremo tutti un po’ “bionici”.

Varese – L’esperimento del CERN di Ginevra, quello che per alcuni avrebbe potuto condurre alla fine del mondo, si è dovuto interrompere a causa di un guasto tecnico.

Il Large Hadron Collider (LHC), il potente macchinario lungo 27 Km capace di far scontrare al suo interno particelle atomiche e subatomiche alla caccia del celeberrimo Bosone di Higgs per capire cosa è successo subito dopo il Big Bang, si è inceppato.

Il CERN che, da qualche giorno, ha messo in rete sul proprio sito alcune immagini fotografiche e dei video delle operazioni di riparazione in corso, oltre alcune foto del punto in cui è avvenuto il guasto e gli effetti che ne sono conseguiti, sta tentando di risolvere al più presto il problema, con la speranza che nel 2009 il Large Hadron Collider possa ripartire e lavorare a energie di 5 Tev (1 Tev = 10^12 elettronvolt) e quindi ancora proseguire, fino a raggiungere 7 Tev.

A questo punto non ci resta che stare a vedere e sperare che tutto proceda per il giusto verso.

Varese - L' incapacità dell'organismo di mantenere il glucosio del sangue al di sotto di una certo valore è detto diabete mellito. Il diabete mellito di tipo 2 è caratterizzato da un duplice difetto che è responsabile dell'aumento della glicemia nel sangue: da una parte l'insulino-resistenza, dall'altra il deficit di secrezione di insulina.

Una ricerca internazionale, condotta congiuntamente dall’Imperial College di Londra, dai francesi CNRS e dell’Università di Lille, dalla canadese McGill University e dal danese Steno Diabetes Centre) ha dimostrato che la presenza di una mutazione denominata rs1387153 nei pressi del gene MTNR1B è associata a un aumento del livello medio di glucosio nel sangue e a un aumento del 20% del rischio di insorgenza di diabete 2. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Genetics.

Il gene MTNR1B è coinvolto nella pathway molecolare della melatonina, ormone che regola il ritmo circadiano – il ciclo sonno-veglia.

Il medico e ricercatore in endocrinologia, biologia molecolare e genetica dell’Imperial College Philippe Froguel afferma: “la scoperta sottolinea un link tra il diabete e un difetto strutturale nel meccanismo che regola l’orologio biologico. Ora la strada per una identificazione precoce degli individui a rischio genetico è aperta, così da poter intervenire con strategie comportamentali e farmaci prima che la patologia si sviluppi”.

mercoledì 10 dicembre 2008


Varese – La sindrome di Down, conosciuta anche come trisomia 21 , a causa di una copia in più di questo cromosoma, tra qualche anno potrebbe essere curata direttamente nel grembo materno.

Un esperimento condotto sui topi mostra la possibilità di contrastare, almeno in parte, gli effetti della sindrome di Down ancora prima della nascita, infatti un gruppo di ricercatori americani del National Institute of Health di Bethesda, come si legge su ’New Scientist’, ha scoperto che la sindrome inibisce lo sviluppo nelle cellule nervose di due proteine chiave, Nap e Sal, le quali rappresentano la causa di alterazioni nello sviluppo mentale.

I ricercatori americani hanno iniettato le proteine chiave in alcune cavie incinte di topolini Down e hanno notato che i piccoli sono nati senza presentare i problemi legati alla sindrome. Gli esperti dicono che non è detto che i risultati molto incoraggianti ottenuti sui topi siano replicabili sul uomo, ciò nonostante è lecito sperare.

In genere i bimbi Down soffrono di una gran varietà di problemi cardiaci e dello sviluppo e di difficoltà di apprendimento di vario grado.

Nello studio, pubblicato su ’Obstetrics and Gynaecology’, si è visto che i piccoli di topo, una volta nati, avevano uno sviluppo analogo a quello dei coetanei; inoltre il cervello dei topolini trattati mostrava livelli normali di una proteina che è sottoprodotta negli animali Down. Ora i ricercatori stanno seguendo gli esemplari curati già nella pancia della mamma, per vedere se gli effetti positivi sono temporanei o permanenti.

Varese - Uno studio condotto da David Sinclair della Harvard Medical School di Boston afferma che alla base del processo d’invecchiamento ci sono dei meccanismi genetici; è stata scoperta, infatti una proteina che potrebbe essere in grado di allungare la vita umana.

La ricerca effettuata sui topi dimostra che potenziando la produzione della molecola, 'sirt1', la vita dei topolini si estende dal 24 al 46% - in termini umani vorrebbe dire guadagnare quasi una trentina d’anni.

Si tratta di una molecola a guardia dell'assetto dei geni attivi nelle cellule giovani: con gli anni, questo modello di attività genica va in crisi e noi invecchiamo.