domenica 8 febbraio 2009


Varese – esiste un particolare tipo di ecosistema, non molto conosciuto, che ricopre un ruolo di primaria importanza per l’equilibrio ecologico del pianeta, le zone umide: stagni, laghi, paludi, ma anche cave di torba, ghiaia o di argilla dismesse.

Il Wwf, in occasione della Giornata Mondiale delle Zone Umide, afferma che questo genere di habitat regola e mitiga gli impatti dei cambiamenti climatici, immagazzinando il 35% del carbonio terrestre globale.

Le zone umide occupano soltanto il 6% della superficie terrestre e quelle che contengono torba rappresentano il più efficiente “magazzino” di carbonio tra tutti gli ecosistemi: ne trattengono il doppio di quello presente nell’intera biomassa forestale del mondo e per molto tempo, al contrario delle foreste; inoltre le zone umide sono luoghi preziosi per attività vitali come l’agricoltura e la pesca - producono il 24% del cibo del mondo - e sempre di più anche per il turismo e per le altre attività legate al tempo libero, sono infine ottime palestre per l’educazione e la divulgazione ambientale; per queste ragioni la loro distruzione comporterebbe conseguenze catastrofiche.

Secondo le ultime stime, infatti, se questi ambienti fossero bonificati, sarebbero rilasciati circa 771 miliardi di tonnellate di gas serra (soprattutto CO2 e metano) - una quantità insomma pari a quella attualmente in atmosfera.

Le zone umide - avverte il Wwf - stanno scomparendo dal pianeta. Nell’ultimo secolo circa il 60% del patrimonio mondiale e ben il 90% di quello europeo è andato distrutto. Le cause sono tante: il 26% delle zone paludose sono state prosciugate per far posto all’agricoltura o per dare spazio allo sviluppo urbano; l’inquinamento, la costruzione di dighe, il prelievo non regolamentato da sorgenti e falde, lo sfruttamento delle risorse, ha fatto il resto.

L’Italia ha perso una superficie immensa di zone umide: dei circa 3 milioni di ettari originari, all’inizio del XX secolo ne restavano 1.300.000, fino a precipitare ai 300.000 registrati nel 1991. Oggi ne sopravvivono appena lo 0,2%, tra aree interne e marittime.

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